venerdì 27 giugno 2014

La giustizia pubblicata



Un bambino al confine incerto dell'adolescenza. Miti assorbiti nell'aria. Irremovibili come gli dei greci. Non piangere, non fare la spia, non tradire. Così Pietro si teneva tutto dentro. Anche perché era cominciato in sordina, piano piano. In un certo senso  gli avevano dato il tempo di abituarsi, la soglia di dolore e sopportazione si era alzata. Uno scherzo, un dispettuccio, la merenda rubata o sporcata, solo in classe davanti alla maestra e al danno evidente. Pietro dritto, il collo teso, occhi lucidi. A lasciarlo di stucco era la sensazione di essere in torto. Era lui lo sbagliato. A casa gli occhi bassi e il comportamento obliquo non sfuggirono alle maglie dell'affetto. “Pietro,qualcosa non va?”. “Niente mamma”.,il copione e’ sempre lo stesso, no? I perseguitati permettono che accada e tengono tormenti e aguzzini al calduccio della paura. Al massimo si esautorano cantando.  Ma le botte forti forti, quelle non le puoi nascondere. I lividi fuori denunciano più di quelli interni. 
Il preside sbatte’ gli occhi e nego’. “Mai nella mia scuola il bullismo”. Pietro ’cadde’ a scuola e dintorni ancora e ancora. I prepotenti allargarono fantasia e ferocia. Le proteste vennero respinte nell’incredulità. Pietro resisteva ma Angela era sua madre. Le foto del ragazzo sciorinate su Facebook, la scuola in bella mostra e le lettere inevase a puntare il dito. 
Di colpo Pietro e i suoi dolori diventarono veri. A vederli su Facebook quei tormenti acquistarono diritto all’ascolto. I giorni negati si trasformarono in realta’ elettroniche. 
Preside e insegnanti trasecolarono di indignazione. Esposti alla vetrina mediatica, con le scope della sollecitudine cancellarono inerzie e cecità passate. “Povero Pietro, che brutti compagni! Perché non li hai denunciati a noi? Ora subito un post dove racconti come li abbiamo rimessi in riga, mi raccomando”.  
Ma Pietro si superò e il suo trauma lo espose ancora più sulla pubblica piazza virtuale. A lui il primo premio del talent show. Il suo rap di periferia, unico filo in versi e musica verso la salvezza, entusiasmo’ carnefici e vittime, protagonisti e spettatori. “Bravo Pietro, che artista”, dissero senza troppo sottilizzare sul costo della nascita. Cosi la vita si avvolse più stretta nello spettacolo e andò avanti.  

martedì 24 giugno 2014

Meditazioni

La piazza piena di barboni, come al solito. La mattina presto vengono i volontari della comunità vicina a offrire la colazione. Rapporto quasi quotidiano, quindi. Gli homeless vivono qui da anni, sono sempre gli stessi. Qualcuno va, qualcuno viene, ma sostanzialmente sono loro.  Litigano, parlano, intonano Pink  Floyd, Rolling Stones o altre canzoni non prive di cultura. Non li senti biascicare l'ultimo San remo, per dire. Piuttosto si intendono in un misto di italiano, portoghese, slavo non identificato, francese. Strascichi di altri tempi. 
La donna si avvicina. Ha familiarità. "Tutto bene, gente?".
 Bene, bene all'unanimità
'"E Roberto, dov'è oggi? Non è venuto?".
 "Ma no, oggi e' martedì, Roberto ha meditazione".
... 

domenica 22 giugno 2014

La frontiera del virtuale



I tre sono amici per la pelle. Inseparabili. Sempre in contatto. Sempre a scambiare opinioni, giocare partite di basket o sfide alla play station. E la birretta del venerdì. Irrinunciabile, un rito da onorare.
Sms: “allora, ci vediamo stasera?”. “Certo. Alle 7?”. “Ok”. “Ok”. 
Le giornate trascorrono così, con scambi di sms, qualche whatsapp, magari corredato di foto  e video, se proprio ne vale la pena. In (si spera temporanea) mancanza di fidanzate, i tre snocciolano giornate tra loro. E si danno continuamente appuntamenti spot per una partitella al gioco del momento. 
Ma il clou viene la sera del venerdì. Quando finalmente possono scambiare due chiacchiere ’vere’. Approfondire i pensieri. Denudare smarrimenti, successi e futuri. 
L'appuntamento e’ invariabilmente alle 7. Essere in ritardo non è contemplato. Fa proprio cafone. 
Così eccoli, i tre. Birra alla spina. Chips. Nachos. O quant'altro. Alle sette, ciascuno al suo posto preferito, di solito sempre lo stesso, nella stessa città, i tre accendono Skype e si fanno una bella chiacchierata. Alzano le birre allo schermo. 
Una nuova frontiera del virtuale e’ stata varcata. 

venerdì 20 giugno 2014

Festa di Costa Rica

E così, alla fine, ha vinto il Costa Rica. Lascio da parte le polemiche sul gioco della nostra nazionale, che sono materia per più addetti di me. E non ci vuole molto. I miei amici ticos hanno strafesteggiato, qui c'è la foto che mi ha mandato Daniela da Nicoya. Nei suoi messaggi continuava a scusarsi, come se fosse preoccupata di ferire i miei sentimenti italiani per la loro vittoria. Io le chiedevo foto e video e lei lo ha fatto, ma in ognuno c'era la preoccupazione di non offendermi. Figuriamoci.
 Comunque, penso che con lo stipendio di uno dei nostri giocatori, il Costarica ci paga tutta la squadra, trasferte comprese.
 Nel girone dell'Italia vince il nuovo mondo, l'entusiasmo e la grinta hanno la meglio su  soldi e aria di sufficienza. Non so come andrà a finire, ovviamente tutto sommato spero che l'Italia vada avanti, però la parabola ci sta tutta. 

mercoledì 18 giugno 2014

Diversamente maturi

Hai visto, hanno dato il gobbo di Notre Dame alla maturità !
Come...???
Quasimodo, il gobbo di Notre Dame
Ehm, parliamo di Salvatore Quasimodo... E' un poeta del Novecento...
Davvero? Non è quello di Esmeralda?
No, direi di no. Direi che è il poeta italiano
Ah, mai sentito...
Ma, perdonami, quando parli del gobbo di Notre Dame, parli di Victor Hugo o del film Disney
Del film... Sbagliato, vero? 

Ma io te boccio 

lunedì 16 giugno 2014

Il calcio in Costa Rica


Alcuni lo sanno già, ho passato tre mesi in Costa Rica. Ero li quando sono stati fatti i sorteggi per i mondiali e ho assistito all’incomprensibile (per me) pathos con il quale e’ stata seguita la formazione dei gironi. Ciascun futuro match e’ stato dibattuto minuziosamente, pregi e difetti di squadre ancora tutte da creare, vittorie e sconfitte già pregustate fino alla fine. 
Se gli italiani sono appassionati di calcio, in Costarica sono completamente pazzi. Le tv sono perennemente sintonizzate su partite di ogni genere. I campionati di tutto il mondo vanno in scena senza soluzione di continuità.  Sbirciando nelle case dalla strada si vedono gli schermi puntati su campi da pallone. Il grande schermo del parco di Barra Honda, dove ho vissuto, era sempre su partite, i canali specializzati sono molteplici. Ho visto, di sfuggita, per carità, più del campionato italiano li’ che a Roma. E i costaricensi seguono ogni match con identico entusiasmo. Più i maschi, ma anche le ragazze che si lanciano in un tifo American style con balletti e cori. 
Calcio, calcio, calcio, quindi. Praticato anche. In un paese dove l'offerta di divertimenti e’ assai parca, il pallone e’ elemento molto aggregante. Giocano tutti, maschi, femmini, bambini anche piccolissimi. Ne ho conosciuti alcuni, non più di sei anni, che sono veri fenomeni. Non importa in quanti si e’, si gioca comunque. Nessuno se la prende per gli errori clamorosi, l'importante e’ davvero partecipare. De coubertin sarebbe fiero. D'altra parte, e' tipico del Costa Rica essere politicamente corretti fino alla noia... 
Mediamente c'è un campo da calcio ogni tre chilometri, e sono tutti tenuti perfettamente. Verdissimi, falciati sempre di fresco. 
A me è toccato varie volte nella mia permanenza a Barra Honda di essere di corvée per tagliare l'erba, che peraltro cresce con la vertiginosa velocità propria di un clima equatoriale. 
Il venerdì, il sabato e la domenica e’ ’obbligatorio’ disputare personalmente almeno una partita. Si organizzano mini tornei tra i villaggi limitrofi. E intorno si arma tutto l’ambaradan di bancarelle, grigliate, birre. La partita, insomma, e’ l'evento sociale per eccellenza.
Immagino quindi il febbrone calcistico che avrà colto la nazione intera! Sarà completamente avvolta in rosso blu e bianco, i colori nazionali. Si vedranno le partite tutti insieme, grandi feste di paese e di città.  

venerdì 13 giugno 2014

Deserto

Soffocante. Polveroso. Ostile. Metodico. Il caldo non si concedeva riposo. Lui arrancava da solo. Alla ricerca di un goccio d'acqua. Per distrarsi ricordava quando sul pianeta pioveva. Aveva in mente i fiori. Immagini sfocate di colori che non esistevano più. Giallo, marrone, grigio, nero. Questo era diventata la terra dopo la grande esplosione. Era bambino lui. Così piccolo da potersi riparare dentro una grotta. Da riuscire ad adattarsi. Allattato con il sangue degli animali morti prima, poi dei suoi simili. Nemmeno a dire che pochissimi della sua specie erano sopravvissuti. E non ricordava da quanto non incontrava un suo simile. Talvolta da lontano avvistava quei nuovi esseri. Rettiloni. Se erano in controluce potevano apparire quasi umani. Ma poi no, le squame, gli occhi sporgenti, quell’andatura bizzarra, un po' a quattro zampe un po' eretta. La coda corta. Strani. Si teneva alla larga, ad ogni buon conto. Meglio viaggiare da soli. Ma l'acqua era un tormento. E’ pur vero che lui, di acqua in senso proprio, ne aveva vista poca assai in tutta la sua vita. Diciamo ’liquidi’ di ogni specie. Anche una spina di cactus può dare sollievo e spingere la vita un po' più avanti. 
Era stremato. Niente miraggi, no. Solo la sensazione che le gocce preziose fossero nascoste li vicino e lo guardassero dispettose. Dietro una roccia. Ad certo punto ne fu certo. L'odore. Il profumo dell'acqua. E, si’, eccola. Gialla e melmosa. Forse nemmeno acqua. Meglio non sapere. Chissenefrega, sospiro’ lui. Bevve. Le sue squame  si serrarono nella memoria di un brivido di piacere. La coda spazzo’ i cespugli in segno di gratitudine. 

giovedì 12 giugno 2014

Sciampista

“Cara, credo proprio che se continui così, nella vita potrai solo fare la sciampista”. 
“Papa', che idea fantastica”. 
“Ti facevo più ambiziosa... Hai idea di cosa significhi passare tutto il giorno in un parrucchiere?”.
“Parrucchiere? Che c'entra il parrucchiere? Magari ci posso andare un paio di volte a settimana per essere sempre in ordine, come già faccio adesso”.
“Be’, se farai la sciampista dal parrucchiere ci lavorerai”. 
“Perché? Le bottiglie di champagne le testano dal parrucchiere? Mai sentito.... Ah, la sciampista non e’ la sommelier dello champagne? Lava i capelli?... Papa’, ma come ti permetti???”!

Sequestro infinito



Sabato mattina. Scivolavo diligentemente verso piazza Mastai quando puff.. Il mio scooter entra in sciopero. A piazza Barberini, nel cuore della ztl. Dettaglio non di poco rilievo, come si vedrà in seguito. Si spegne e non riparte. Morto. Ormai temprata dalla vita della giungla, urbana e pluviale, prendo un taxi, torno a casa, agguanto le chiavi della macchina e, solerte, mi presento sul posto di lavoro. Inutile dire che il sistema sanitario meccanico nei week end e’ a tenuta stagna. 
“Le do il numero del carro attrezzi, così lo fa portare da noi”, aiuta l’officina Velosud con la premura di chi ha pronto il pic nic sulla sabbia. 
“Signora, se ne parla lunedì, ovviamente -fa spallucce il suddetto carro attrezzi- e poi, che sfortuna (per lei), proprio nella ztl. Noi non possiamo entrare prima delle 18. Quindi, vediamoci lunedì alle 18, davanti al cinema”. 
Ho scelta? mi chiedo. Abbozzo. 
“Allora il carro attrezzi le porterà il mio scooter lunedì pomeriggio, verso le 19”. “Alle 19 siamo chiusi. Dovrà portarlo il giorno dopo”. 
Scatta il multitasking e costruisco mentalmente un complicato sistema di ’insegui il carro attrezzi, fai scaricare il motorino davanti al l'officina, prendi le chiavi, il giorno dopo vai presto la mattina in macchina, dai le chiavi all’officina e vai al lavoro’. Tutto, ovviamente, nel comodo traffico romano. Rassegnazione. 
Torrido lunedì pomeriggio. Sul luogo dell'appuntamento arriva Rino con il suo carro attrezzi, carica il malato e va. Assicura: “abbiamo parlato noi con l'officina, ci aspettano, lo portiamo adesso, non c'è bisogno che lei venga”. 
Me ne vado quindi per i fatti miei con il mio colpo di fortuna. 
Martedì. Telefono al l'officina. Gentilissimi, per carità, ma del mio scooter non v’e’ traccia. “Chi l'ha preso, signora? Noi abbiamo quattro compagnie che fanno questo servizio”. Rintracciato il ’mezzo’ che aveva caricato lo scooter, ascolto trasecolata la seguente storia. 
Il carro attrezzi e’ andato (dice) all’officina, ma loro avevano già chiuso. Quindi, hanno portato la moto a dormire a cosa loro sulla via Prenestina. La mattina dopo ““alle 8.40 eravamo a via dei gracchi, davanti a Velosud. Poi alle 9 siamo andati via”. “Ma l'officina apre alle 9”. “Eh, si, signo’, ma noi avevamo da fare”.
Ergo, la professionalità di questo sedicente Salvamoto (senza un filo di ironia) lo induce a portare i motorini alle officine, quando queste sono chiuse e ad andarsene intorno all’orario di apertura. 
Una filosofia sulla quale ritengo valga la pena di meditare... Tanto più che di tutte queste vicissitudini sono stata tenuta all'oscuro, finché non ho telefonato io. “Signo’, vabbe’ ho sbagliato a non avvertirla... Mandi una mail di protesta alla nostra amministrazione. Le rimborsiamo anche i 40 euro che ha speso per il trasporto”, assicura Rino. Così faccio, ma ne ricavo una ulteriore telefonata. “Abbiamo consegnato prima di pranzo (martedì) non dopo”. “Velosud dice di no”. “Adesso le mando la copia della consegna”. Naturalmente questa bolla non arrivo’ mai... Inutile dire che i 40 euro scompaiono dalla conversazione. 
E veniamo al capitolo Velosud. 
“Signora, del suo motorino non c'è traccia. Richiami tra un po’”. “Non ci penso proprio. Mi assicuri che lo scooter non e’ li. Sono pronta anche a chiamare i carabinieri. Voglio sapere", minaccio. "Aspetti. Noi siamo quelli della mattina, adesso le passo chi è qui tutto il giorno”. La signora non è cortese e nemmeno efficiente. Scartabella. Trovo il mio kymko e mi chiede se ho un appuntamento con il meccanico. “Perché noi lavoriamo solo su appuntamento”. “Ma il mio scooter e” arrivato con il carro attrezzi, ho telefonato sabato, mi avete dato questo numero, sapevate che sarebbe arrivato...”. “Lavoriamo solo su appuntamento”, si impunta.”il suo mezzo potrà essere esaminato venerdì”. Cerco di mercanteggiare. Concede un “forse lo guardiamo prima, le faremo sapere”.
Giovedì. Tutto tace. Siamo ancora in attesa di diagnosi. temo che il (segue) sia d'obbligo. 

martedì 10 giugno 2014

Gli abitanti di Berderry


Tra polveri sottili e meno sottili, sono nate le vicende di Martha Rimmel Scravin e compagni. Cito Martha perché mi e’ simpatica a pelle. E' una killer. 
Quando Stefano mi ha presentato “Gli abitanti di Berderry”   mi sono subito entusiasmata. I personaggi corrono veloci nei vestiti giusti. Parlano lingue sorprendenti ma comprensibili. Le gocce di veleno cadono belle secche, non perdonano.
 Stefano Romita e' il mio ex marito. Padre di mia figlia. Ricordo benissimo quando ha scritto questa storia. Tra le macerie. In quei mesi infatti stavamo ristrutturando l’appartamento. Lui era in una fase di passaggio tra un lavoro e un altro. Così sovrintendeva intonaci e parquet e nel frattempo intrecciava vite immaginarie con fili elettrici e cavi tv. Ecco come e’ nato Berderry, “il comune con il maggior reddito pro capite di tutta l'Inghilterra”. Residenza estiva nientedimenoche di Mick Jagger (che però nella vita reale non lo sa. Ancora. Ma lo saprà dopo il successo strepitoso di questo libro e dopo che Flaminia, nostra figlia, lo avrà tradotto in inglese). Ma la personalità del villaggio non e’ legata alla musica, bensì all’inusuale convivenza virtuosa di petrolio-calcio-cavalli. L'idea contromano di questo romanzo  e’ che ogni personaggio  e ogni piccola storia nella storia possono essere spostati nella fila, incastrati a piacere, quasi che ciascuno possa abitare a Berderry a modo suo. Esci e incontri questo o quello non necessariamente nello stesso ordine, non necessariamente sempre tutti. 
Insomma, Stefano porta i lettori a casa dei suoi personaggi. Verrebbe da dire ’dei suoi amici’. Li presenta, lascia aperto il rapporto. Cosi’, personalmente mi ha colpito la dodicenne Amy che vuole diventare una carpa di tutto rispetto, con tanto di baffi e tana. Martha Rimmel Scravin, di lei ho già accennato, invece “uccideva per professione usando solo armi da taglio”. E poi le piccole ironie come la clinica psichiatrica ’Noveau tête’. Il setter Blu (l'abbiamo avuta davvero una Blu, spinona molto amata e sempre rimpianta) dice la sua e racconta il punto di vista canino della scoperta di un cadavere. 
La trama, no, non la svelo. Il sorriso finale, sappiatelo,  e’ pieno di consapevolezza. 

P.s. Stefano ha anche illustrato copertina e contro copertina. E dire che quando stavamo insieme, si accaniva a disegnare sempre lo stesso -orrido e elaboratissimo- profilo di un tizio a metà tra una caricatura di Scrooge e un faraone egiziano... 

giovedì 5 giugno 2014

Ambasciatori del mondo nuovo



La piccola repubblica incantata non l'aveva scelta per caso. Non era stato un colpo di testa e nemmeno un colpo di coda. Quello sfizio terrestre lontano lontano da casa l'aveva programmato con cura, mappamondo alla mano e  aveva costruito il puzzle passo passo. Fare l'ambasciatore non è un gioco da ragazzi, bisogna avere la stoffa. E a volte il vestito italiano non e’ proprio comodo ne’ di lusso. Perché la diplomazia, è vero, aggiusta e illanguidisce le questioni, ma può penetrare fino all'osso senza parere. Il minuetto impercettibile delle sopracciglia, una spalla appena spostata, il mento significa, i muscoli del viso sottilissimi dicono assai a chi capisce la lingua. E possono raccontare  storie diverse dalle parole. 
Così a quelle riunioni scadenzate di colleghi europei non andava volentieri. Parlare di Europa da quella angolazione remota non sembrava cosi’ utile. Barbari, li trovava. Mai l'ironia a portata di mano. Culture  tutto sommato incapaci di alzare lo sguardo oltre la moneta, compiaciute senza sapere di cosa parlare. A dirla tutta, poi, c'era la questione della situazione politica. Difficile trovare bacchette capaci di trasformare un presidente del consiglio che incarta nelle barzellette conti nel baratro e paralisi riformatrici. Ore urticanti a sentire la spocchia declamare di democrazia e onestà, di maturità e consapevolezza. In tasca parole povere, in testa un cappello spuntato per principio. 
E poi, il ticchettare delle urne. 25 maggio 2014. In Italia i voti cadevano virtuosi dalla parte del futuro, si ammonticchiavano contro il qualunquismo e gli urli, suggerivano programmi e prospettive sgretolando la violenza rozza. Il nuovo leader spopolava, dentro e fuori dai seggi. Francia e Inghilterra facevano i conti invece con idee senza idee. Le schede disegnavano paesi vuoti, pronti a far progetti per il passato, le mani incrociate sui borsellini e sulle anime. Orchi sgangherati in tv.
Una nuova riunione porto’ il giusto equilibrio. Le sopracciglia fecero il loro lavoro di sopracciglia per una volta. I menti furono impeccabili. Più provate le spalle. Per non parlare delle parole che si nascondevano dietro il loro significato letterale. Le bandiere persero di vivacità. Il tricolore scoppio’ a ridere.

sabato 31 maggio 2014

The candy crush saga



A Vittorio non avevo mai dato un soldo. Nel senso che nel quartiere girava e girava, ma non mi sembrava concludesse un granché. La mamma, poveretta, l'aveva fatto studiare. Solita storia, piccola famiglia, piccolo reddito, grande abnegazione. Tutto per i figli. Anzi, per il figlio. Così, insegnamento alla scuola media al mattino, ripetizioni il pomeriggio. Qualche lavoretto estivo come baby sitter, dog sitter, accudimento di vario genere. Vittorio avanti e sopra a ogni cosa e lui a girovagare nel quartiere. Per carità, laureato bene. Ingegneria. Ma, insomma, questo posto fisso, nemmeno a parlarne. Segni dei tempi, certamente. Ma insomma... Giornate intere al bar a trafficare con il lap top. Serate incantato dai giochi di carte degli anziani, dai flipper, dal poker online. Mai che si impegnasse in prima persona però, Vittorio. Uno “scansatutto”, dicevano in giro di lui. 
Così, il giorno che entro’ in ufficio, alzai mentalmente gli occhi al cielo. Jeans e maglietta. Esitante. Lo potevo sentire zigzagare con la mente. Sbuffai dietro il sorriso. 
“Vorrei comprare un appartamento per mia mamma”, si tuffo’ Vittorio. 
“Bene... Si... Hai già un’idea della grandezza?”. 
“Be’, no però deve essere grande, arioso, spazioso. Un posto dove mia mamma possa stare bene e pensare bene”. 
“Mmmm ci sarebbe un 90 metri quadri qui dietro, all’Alberone. E’ un terzo piano. Ha anche un balconi no”.
“Grazie, no. Pensavo a qualcosa di più grande, magari un po' più in centro”. 
Trasecolai tra me e me. Una eredità? Qualche zia senza eredi da chissà dove? 
“Vediamo... 120 mq a San giovanni? Ha anche un terrazzino, sporgendosi un po' si vede anche la cupola della basilica. Quasi non ci sono lavori da fare”.
“No, mi scusi... Pensavo al centro vero. Chesso’, piazza Navona? O forse piazza di Spagna... Alla mamma e’ sempre tanto piaciuta. Ricordo che mi ci portava e mi suggeriva di immaginare di abitare li, a due passi dalla scalinata. Con quella bella vista...”.
Non riuscii a trattenermi dal ridergli in faccia. Piazza di Spagna? Piazza Navona? Ma questo non sta bene. E per gioco decisi di rilanciare. Certo, personalmente non avevo appartamenti di quel genere. Davanti a Vittorio, un po' sprezzante, telefonai al primo agente di Roma. 
“Che fortuna, hanno proprio un attico su Trinità dei monti.... Duecento metri quadrati... Terrazzo... Finestre panoramiche... Dieci milioni di euro”, sorrisi soave.
“Ecco. Possiamo vederlo? Magari oggi stesso, prima che lo compri qualcuno?”, si emoziono’ Vittorio, di colpo uscito dal torpore. 
Lo guardai. In silenzio. In attesa. 
“Si’, perché ultimamente ho guadagnato un po' di soldi. Ho progettato un giochetto per il web... Una sciocchezza che però ha avuto successo... Si chiama Candy Crush saga... Ne ha mai sentito parlare?”. 

mercoledì 28 maggio 2014

Alto tradimento



Alison e’ una ispanoamericana ebrea, identità difficile della quale era fieramente complessata. Le sue estati le passava a Cortina  a convincere con modi e comportamento di non essere una baby sitter, ma una delle ’signore’. Nel frattempo, per sentirsi meglio sputava veleni in confezione maxi sull'Italia, paese inadeguato e incivile. Atteggiamento, questo, che le valse impieghi di poco livello ma di molto prestigio in più di una istituzione. “Senza di me quel dipartimento non potrebbe andare avanti”, sentenziava davanti al suo mojito. Alle amiche locali spiegava sagace il suo ruolo centrale nella politica italiana e fustigava diligente costumi che lei stessa poi indossava con indifferenza. “Vado a letto con questo o quel senatore per avere un posto? Che schifo, e’ disgustoso, e’ questo malcostume che avete da voi... Utilizzo spudoratamente il fatto di appartenere a una minoranza etnica per raggiungere i miei obiettivi? Eh, beh, ma io ’sono’ minoranza etnica”. E pazienza se in Italia questo non rileva più di tanto. 
Così, madame coltivo´ l’onnipotenza e scalo` a bracciate.
La frode contro chi si fida fa scuola dai tempi di Dante. Allegramente Alison se ne frego’ della morale letteraria e circuì l'amica, altrettanto allegramente incurante di Machiavelli e dintorni.  
L'incontro tra le due era stato scintillante. “L'Italia fa schifo, non trovi”, discorreva Alison. “Non vivere in Italia come se fossi a New York. Non vedi che sei antipatica a tutti?”, prendeva fuoco Federica. Una apparente presa di consapevolezza e autocritica sigillarono la tregua che si trasformò in frequentazione assidua.
Di fronte all’aperitivo, le due analizzavano politica, amori e costumi. Si facevano confidenze e svelavano segreti. Uomini, figli, carriere. 
Ecco, carriere. L’una ingoiava pezzi di vetro a chilate. L'altra se ne stava appollaiata ad ascoltare. Comprensiva. Attenta. Tante domande. Qualche suggerimento. Puntuale per chi è dell'ambiente. Accompagnava il calvario con ottima solerzia. Settimana dopo settimana, mese dopo mese, Alison beveva Martini e puntate di sconfitta. Federica scendeva verso gli inferi con passo da maratoneta. Ogni sua mossa per risalire la china veniva bloccata, ogni iniziativa per trovare rifugio o confronto altrove era prevista e neutralizzata. Su colpi d'ala, scatti di fantasia, strategie, tentativi di divincolarsi passava ogni volta un potente diserbante. Quasi una magia. Quasi ci fosse una microspia. O una spia. “Non e’ possibile”, penso’, scandalizzata di se’. 
E poi arrivo’ l'epilogo di quella guerra velleitaria. Centomila a zero per il nemico, of course. 
“Ci vediamo stasera?”, le telefonò Alison. 
“Certamente si”. Ma lei non aveva voglia di parlare della giornata. Voleva provare il guanto di paraffina. Parlarono del più e del meno. Stranamente asettiche rispetto al principale argomento di conversazione degli ultimi mesi. Alison non  chiese nulla. E spari’, portando con se’ lo scacco matto. 

lunedì 26 maggio 2014

Regalo di compleanno



“Auguri, auguri, buon compleanno!!!”. I brindisi, i baci, gli abbracci si susseguivano. Le carte dei regali scintillavano. Giovanni e Francesca a passeggio tra gli ospiti. Soddisfatti. Si lanciavano occhiate complici e felici da un lato all'altro della piccola enoteca che avevano riservato. Doppia allegria, quest'anno. I trenta di lei, i quarantuno di lui. Era passato un periodo difficile. Ora di celebrare. Ora di cambiare pagina. 
La selezione degli amici era stata implacabile. Pochi, pochissimi. Scelti, sceltissimi. Davvero una piccola sintesi della vita adulta di entrambi. Il cuore e la storia. Così come la decisione di festeggiare oltre il giardino di casa per offrire una cornice insolita e godersi ogni minuto senza l'andirivieni con la cucina. Complice il clima finalmente caldo, che invitava a togliersi giacche e golfini. 
La festa perfetta. La coppia perfetta. Gli amici perfetti. 
Si erano trattenuti tutti a lungo. 
Al momento di saldare i conti, i conti però non tornano. Giovanni impallidisce. La busta bianca accuratamente infilata nel taschino e' ancora li. Vuota però. Niente banconote. Le ipotesi si accalcano furiosamente. Scivolate da una maglia nella busta? Ma la maglia non c'è. Un movimento brusco? Avrebbe fatto cadere baracca e burattini, denaro e involucro. 
La verità no, non la vogliono vedere. 
Litigano Francesca e Giovanni. “Dovevi stare attento, dovevi chiudere il bottone della tasca. Sorvegliare la giacca”. “Mai. Ero tra amici. Non mi convincerai mai a vigilare tra amici”. 
lo sguardo di Giovanni si fa opaco. Tra se’ vede il film di una mano che si insinua furtiva, apre, saccheggia, richiude e ripone. Dentro al cuore una palla di cannone che non si può sciogliere più. “Chi tra di loro... Con che occhi li abbraccerò uno ad uno  d'ora in poi?”. 

venerdì 16 maggio 2014

Niente alito alle polemiche



Giugno 2016. Roma in festa. Almeno in parte. Gran parte. Quel 70 per cento che aveva votato il nuovo sindaco. 70 per cento? A Roma, la città dei cinici e disincantati? Evento epocale che manco uno scudetto. E quindi, basta  Pci-Ds-PDS-Pd e altre eventuali mutazioni genetiche delle stesse speranze disattese. Adesso anche nella capitale ecco la comicità al potere, il Nuovo. Il Rivoluzionario. Finalmente una guida fresca, che le buche le ripara in volata e le nomine le fa ’a prescindere’. 
E così il discorso di investitura era atteso assai. 
“Cari concittadini.... Va bene, non sono di Roma, ma da oggi anche io sono di Roma.... Da oggi anche qui si #cambiamusica... Sono geniale, diventerà il nostro hashtag ... Somiglia al #cambiaverso di Renzi? Figuriamoci... I miei predecessori ne hanno fatte più di Carlo e Franca, ma ora basta... Ah... Pensavo si riferisse ai Ciampi... Si dice ’più di Carlo in Francia’? ... Okkei, banalita’.... Il discorso politico e’ che adesso si butta tutto il passato... E la nostra guida  non darà alito alle polemiche ... Adito? Adito??? Insomma perché mi interrompete sempre? Non ho mica bisogno di una baby sister, io!!! Come prima cosa, cari romani, vi annuncio che farò asfaltare quei giardinetti ovali che avete lasciato incolti, proprio dietro il Colosseo.  Sono così rovinati che sembrano li da millenni! No, no adesso metteremo lampioni, panchine, qualche chiosco. Altro che piste ciclabili e Fori imperiali senza macchine”. 
Il Nuovo non sentiva però applausi. I suoi supporter, accorsi a festeggiare, ridacchiavano qua e là. A parte il manipolo di pretoriani che da sempre lo circondava, gli scriveva i discorsi, lo teneva esposto ma lontano dalle spine della vita pubblica, gli altri sembravano aspettare. Ma cosa? Le sue parole gli sembravano perfette. Del programma di governo non aveva parlato mai in campagna elettorale e non avrebbe cominciato certo adesso. Nemmeno ce l'aveva, lui, un programma elettorale. Per vincere gli era bastato inveire, insultare, qualche battuta riciclata, una spruzzata di discorsi sentiti sull’autobus (quando ancora lo prendeva, quando non era un politico). Adesso ce l'aveva fatta. Lui era il Nuovo. Già questo cambiava le cose in se'. Dovevano capirlo, questi romani. 
Riprese. Le telecamere ammiccavano, non poteva deluderle.
“E a proposito di illuminazione, vi annuncio che presto Roma sarà abbagliante: metteremo luci al neon ovunque. Basta con quel giallo soffuso. C'è un mio amico che ne ha una scorta enorme, di neon. Adesso  produce lampade a basso consumo, dice che vanno di moda in Europa, ma che neon come quello che mi (ci) vuole vendere non se ne fa più. Dite che i Led sono il futuro? Be' io non sono il futuro, io sono il Nuovo”.
Ma insomma, la platea non si scaldava. Ondeggiava, frusciava, stormiva. Ma fondamentalmente il  Nuovo sentiva di arrancare. L'impasto non lievitava, Roma lo schiacciava con i suoi anni indipendenti. Il Nuovo decise che se non poteva scaldare, avrebbe infiammato. 
“Cari romani, mai abbiamo parlato finora di cose concrete, ma eccone qui una: so bene che abbiamo un problema enorme di spazzatura. Io lo risolverò. Subito. Con un bel provvedimento 'a doc'. Lo capite l'inglese, no? Significa 'fatto apposta' Un grande sforzo collettivo per abbattere questo soprapeso della città. Altro che discariche e cialtronate come la raccolta differenziata. Soluzioni di lungo termine. Io indico per domani lo “spazzatura Day”?  Tutti insieme alle ore 19 incendieremo i nostri rifiuti, tutti in strada, svuoteremo i cassonetti e le pattumiere e inceneriremo tutto”. 
Così fu. Il profeta comico ebbe ragione ancora una volta. Basto' un alito, questa volta si', di vento.  Il fuoco corse entusiasta per le vie e i vicoli di Roma, villa Borghese e villa Ada restarono indifese, i sette colli avvamparono. “Uno spettacolo impressionante, davvero”, commento’ il Nuovo un po' impressionato e lievemente stizzito: “l'ha già fatto Nerone? Ah, e' vero... Lui cantava. Buona idea. Facciamolo anche noi,  un bel karaoke sul Campidoglio... ". 

Incidenti



Non riusciva a credere al suo corpo. La testa rintronava, sul sedere aveva sentito uno schiocco violento, un muscolo rotto nell'impatto. Forse. Subito dopo si era rialzata, spinta dalla rabbia e aveva combattuto, ma poi si era afflosciata di nuovo per terra. Il pavimento freddo e la vergogna. E la paura. Di essersi fatta male davvero. Di averla scampata bella. Di quello che era successo.  “Santo cielo, abito in centro, ho una laurea, una carriera, una famiglia alto borghese...certo, lui viene dalla piccolissima borghesia, gente che in testa sbatte mestoli, non idee o principi. Eppero’...”. 
“Da, alzati che non ti sei fatta niente, smettila con questa manfrina”.
Lui torreggia arrogante. Nemmeno un briciolo di vergogna, lui. Come se fosse una scena ripetuta altre volte, con altre protagoniste. Vedendola strisciare a terra, incapace di rialzarsi, ecco il dubbio. “Ti aiuto, ti metto sul letto?”, propone. Dal suo metro e novanta, la voce arriva fredda, non riesce a rompere il ghiaccio che si e’ formato su di lei. “Vattene”. Lui esce, va. Non sente altro bisogno di prodigarsi.

“Mamma, come va”. “Tutto bene, perché?”. “Mi ha detto lui che ti sei fatta male. Non so, che ti ha spinto?”. “Be’, si’, avrei preferito che tu non lo sapessi, comunque si’, sono a terra, non riesco a muovermi, mi dispiace”. “Mi dispiace??? Ma che è successo?". “Una lite... Mi ha detto di uscire dalla stanza, io ho detto di no e lui mi ha preso di peso e sbattuto a terra in corridoio”. “Vuoi che venga?". “No, grazie, arriva una mia amica. Lui le sta dando le sue chiavi di casa, mi soccorrerà. Tu resta a scuola”. 

“Denuncialo. E’ mio amico da vent'anni, ma devi denunciarlo”. “No, ha una figlia adolescente, come potrei? Lo rovinerei. Ha già lanciato un casco contro un collega. Ha già ’quella’ fama...”. 

Nel letto, pesta di dolore, lei riflette. “Questo e’ il mio compagno,  ha lasciato la sua famiglia quando mi ha incontrato, che è successo? Perché ha fatto questo? Perché mi sono vergognata? Perché lui non si vergogna? Mi ha solo detto ’sei così leggera, sei volata’”. 

Sono partiti insieme. Lui sempre un passo avanti. Lei ancora zoppicante, trascina da sola valigia e pensieri doloranti. In compenso, lui le vieta di postare foto e commenti. “Ho detto a mia moglie che sono partito da solo”. “Ma vi siete lasciati da due anni...”. “Be'? Tu non postare. Sei infantile a insistere. Io lo faccio? Be’, si’, io si”.

L’acqua scorre sulla pelle abbronzata. Visto da sotto, il sole squillante scherza con le onde, la barca a pochi metri. “Signora, e’ stata via tanto, cominciavo a preoccuparmi! E suo marito dov’e’?”. “Ha deciso di tornare via terra, ha mal di mare. Non è mio marito”. Ma la giungla e’ tutta uguale. Soprattutto con gli spessi occhiali in frantumi, con quei mal di pancia incontrollabili, ginocchia e caviglie deboli, tendenza a perdere liquidi. E senza  cellulare poi... Un incidente, che tragedia, tre giorni a cercarlo tra le mangrovie per poi ritrovarlo soffocato nel sudore. Tre giorni di vacanza un poco rovinati. “Come lo rimandiamo a casa suo marito?”. “Non saprei, non era mio marito”. 


venerdì 9 maggio 2014

Una delle due

Siamo sempre state in due. Due. Insieme giorno e notte. Nei primi giochi, a scuola inseparabili, il primo lavoro. Qualche divergenza, talvolta, non lo nascondo. Magari a lei piaceva la gonna viola, che io detestavo. Odiavo per esempio quando si faceva la coda di cavallo. A me piaceva la pallavolo. A lei quello stupido Ping pong. Che noia le interminabili partite «Ping...pong... Ping... Pong...». Insopportabile. Ma nel complesso, la nostra infanzia e' stata piacevole. La mamma voleva bene a tutte e due, mai una preferenza, mai un distinguo. E non soffrire mai di solitudine, non lo nascondo, e' piuttosto un sollievo. 
Poi, lui. Inevitabile, no? Perfino banale. Un ragazzo arriva nella tua vita e l'armonia si spezza. Doveva proprio piacere a tutte e due? Doveva insinuarsi tra noi? Be', sia come sia, e' successo. Mai siamo state così litigiose, mai tanti giorni senza rivolgersi parola. 
E lui? Niente, sembrava non accorgersi di niente. Carino, affettuoso, galante con entrambe. Come la mamma. Ma non con gli stessi effetti. Dalla mamma era gratificante ricevere le stesse attenzioni, sentirsi alla pari. Ma lui... Lui doveva scegliere. E invece, niente. La cosa si stava protraendo da troppo tempo. In me la rabbia montava e la gelosia anche. Dovevo fare qualcosa. Anche di estremo. 
Così una sera, eravamo in casa da sole, decisi di ucciderla. Non c'era ahimè altro mezzo per liberarmene. Non si sarebbe mai tolta dalla mia strada spontaneamente. 
Nessuno capì mai perché Elena , figlia unica, si fosse suicidata. «Una mamma che la adorava, un boy friend innamorato. Aveva tutto", disse la gente.

mercoledì 7 maggio 2014

Dal suo punto di vista

Ho conosciuto Danila Santagata cinque anni fa. Bionda dentro e fuori, disparata, filtrava la realtà a modo suo, senza insospettirsi. Una donna lieve e sorridente, con bagliori di arguzia in una quotidianità invece indolente. No. Tutto sbagliato. Danila e’ una vera combattente, cade si rialza, la spada la impugna quasi senza parere, ma non la lascia mai, ci dorme anche. Con spada e nemici. La storia raccontata nel suo libro colpisce per il dolore cristallizzato che porta dentro. Scriverne non sembra una catarsi, nemmeno un esorcismo. Daniele dice: “ecco mi e’ successo questo, così e anche così, quelle persone siamo noi e non ci possiamo fare proprio nulla”. 
“Dal suo punto di vista” e’ la storia amara di una donna in lotta per la sopravvivenza, sua e, inconsapevolmente del suo bambino. I sensi di colpa laceranti di Laura, la sua depressione sempre più grave, poi i tentativi di reinserirsi nel mondo del lavoro, una capo, una deputata, tutta tacchi e firme che utilizza la protagonista per passeggiare, lei stessa, liberamente, tra i corridoi spigolosi di Montecitorio. 
C’e’ tutta Danila in questa storia, il suo carattere, le cadute, le fughe, le debolezze assorbite e respinte ad una ad una. Le cose che succedono alle donne. 
Quando questo romanzo è uscito in cartaceo ha avuto un discreto successo, per quanto di successo si possa parlare in casi di piccoli editori e scrittori sconosciuti. Chi lo ha letto l'ha amato, alcuni lo hanno lasciato dopo le prime pagine, durante le presentazioni alle quali l'autrice è stata invitata a partecipare le copie sono risultate sempre insufficienti rispetto alle richieste. Sappiamo tutti del destino di ’non pervenuti’ che hanno nelle librerie le opere ’senza raccomandazione editoriale’. Ovvio che ’Dal suo punto di vista’ non sia facilmente reperibile per le tradizionali vie cartacee. Quindi Danila (che appunto non si arrende mai) lo ha trasformato in ebook, del quale disciplinatamente pubblico il link 
http://www.portalebook.it/narrativa-italiana/185-dal-suo-punto-di-vista.html

 Aspetto adesso la sua nuova avventura. Sempre nei palazzi del potere, che ci sono familiari, racconta al telefono. “Lo sai che mi e’ successo, no? Ora l'ho scritto. Chissà quanti riconosceranno quel politico di cui parlo nel romanzo...”.  Già. Vedremo. 

lunedì 5 maggio 2014

Solo una foto



Sul divano Paola arrotolava pensieri disparati. Le ombre della  giornata finita sdraiate accanto a lei. L'urlo del telefono di casa la meraviglio'. “Chi, a quest'ora? Mia sorella e mia mamma le ho già sentite. Sara’ una di quelle offerte imperdibili tipiche delle ore pasto?”. 
“Pronto? Sei Paola?”. 
“Si. E tu... Sei....?”.
“Livio. Ti ricordi? L'ex fidanzato di Angela...”. 
Paola senti’ il sangue trasformarsi in poltiglia, poi in marmo. Silenzio.
“Ehi, ci sei? Come state tutte e due? Quanti anni sono passati? Dieci? Angela e’ ancora arrabbiata con me perché l'ho lasciata? Certo, un po' malamente, ma ormai mi avrà anche perdonato...”. 
Paola tiro’ un sospirone. Non c’e’ un modo per dirlo. E nemmeno un modo per accettarlo. Dopo tutto quel tempo, il dolore veniva sempre a galla senza invecchiare mai. 
“Angela e’ morta. Cinque anni fa”.
“Come? Davvero? Che le e’ successo”. 
Ripercorrere quei mesi ancora una volta, il malore in vacanza, le analisi, curarsi, non curarsi, soffrire. Da sole. Insieme. In tutti i modi possibili. L'addio. Mai definitivo. Il filo che la legava ad Angela era ancora robusto. Intrecciato di troppi ricordi. 
La voce di Livio vibrava nella cornetta.
“Ma che sta dicendo? Vuole vedermi? E perché? Non eravamo amici, lui Angela non l'ha rispettata mai. Nemmeno ora. Ha saputo che è morta e mi chiede di uscire? Ah, la sua donna lo ha lasciato... Ah, hanno una bambina... Ah, la figlia grande che abbiamo conosciuto noi ha nostalgia di Angela, ma il suo cellulare risultava sempre staccato... Be’, per forza...”.

“No, Livio, non mi sento di vederti. Non c'è ragione. Ho un compagno, va bene così. Vuoi una sua foto? Per tua figlia tanto affezionata? Ma tua figlia nemmeno lo sa che Angela e’ morta... Non lo so, sentiamoci dopo il ponte, io parto”.
Una bugia per prendere tempo e assorbire lo choc. Uno stupore rabbioso l’accompagno’ a dormire. E nella giornata successiva si trasformò in indignazione e vaga inquietudine. Quel Livio non le era mai piaciuto. E riaffiorare cosi’, in disinvoltura, nonostante quelle notizie non le piaceva affatto. 
Lo squillo del telefono, la sera successiva, non la sorprese affatto. Il display mostrava ’quel’ numero. 

“Gli ho detto che partivo. Mi controlla. Perché?”. 
E poi giochi di ombre e di suoni annidati negli angoli più impensati. Un mese così. Lo trovarono i carabinieri.
 Il coltello in mano.
 “Voglio quella foto”. 

sabato 26 aprile 2014

Perduti


Jason era preoccupato. La serata gli stava costando più del previsto. Le sterline nel portafogli erano praticamente finite. Ma il ritmo girava. Non aveva voglia di andare via. O limitare. No. Stasera 'no limits'. E dunque aveva bisogno di altri soldi. Quindi, di un bancomat. Allora, via, uscire, andare: bancomat, soldi, ancora divertimento. 
Rapido nelle decisioni, anche se non sempre avveduto, Jason uscì dal pub. Undici di sera. Città assai poco conosciuta. Mani in tasca, camminare. Nessuno in giro. «Ovviamente, quando ti serve, c'è il deserto... Ah, no ecco, un uomo... Mmmmh un homeless...»
«mi scusi», disse Jason
«Eh? Che c'è? Che vuoi?»
«Per caso, sa dov'è un bancomat nei dintorni?».
«Si, certo. L'accompagno», fa l'uomo, senza battere ciglio. Camminano. Jason un passo indietro.
Strade deserte, nelle notti inglesi. Fa freddo e appena oltre le luci e il calore emanato dai pub si fa freddo e scuro scuro. 
Tre svolte e sei nel nulla. Case buie e fredde. 
L'uomo si volta di scatto: «dammi tutti i tuoi soldi».
Jason trasecola. E' interdetto più che spaventato. «Ma se ti ho chiesto un bancomat, e' ovvio che soldi non ne ho, ti pare?». 
«Be' allora andiamo al bancomat», concede l'uomo. 
Pochi metri. Luce e di colpo via vai, persone in giro. Non ci vorrebbe molto per Jason liberarsi dell'incomodo. Bastebbe accostare qualcuno o gridare. Ma no. I due si avvicinano allo sportello automatico. 
«Stai lontano che poi ti riconoscono», avverte Jason. Preleva. E versa due terzi nelle mani dell'uomo incredulo. «Troppo tonto. Gli chiedo un bancomat e lui cerca di rapinarmi 'prima' che io abbia i soldi?», spiega poi agli amici. «Macome potevo lasciarlo in balia di se stesso?». Preferì ignorare il sussurro di chi si chiedeva quanto tonto sia uno che chiede dove sia un bancomat a un homeless... 
  

mercoledì 23 aprile 2014

La stanza degli altri





Elsa era proprio contenta. Dopo dieci giorni di vacanza ad Alba adriatica, tornare a casa faceva bene. Infilo' le chiavi nella serratura, fece un passo avanti e ecco la penombra dell'ingresso. Meno male, la sanseveria non ha sofferto. Un po' floscio invece lo spatifillium, ma niente che non si possa risolvere con un po' d'acqua. 
Elsa porto' la valigia in camera da letto e cominciò a disfarla. Gli abiti sporchi per la lavatrice, qualcosa da portare in tintoria, il maglione di cachemire grigio comprato in fabbrica nel cassetto in attesa dell'inverno, i maccheroncini di Campofilone, specialità locale, in cucina. E il piccolo acquerello acquattato nella polvere di una bottega di Tortoreto nella stanza degli ospiti. Ci aveva pensato a lungo, Elsa, prima di comprarlo. Non che costasse una fortuna, ma comunque, aveva senso, alla sua età accumulare cose? Non sarebbe il tempo di lasciarsi indietro gli oggetti, si era chiesta. Non è più il momento di progetti, aveva ragionato. Ma invece, evidentemente, non era così. Quella marina, forse banale, ce l'aveva avuta negli occhi per giorni. Aveva rovistato nell'immaginario del suo appartamento per collocarla qui o li. E alla fine aveva deciso che era perfetta per la stanza degli ospiti, accanto allo specchio con la cornice di noce. L'avrebbe rischiarata un po'. 
«bene, mi faccio un caffè e l'attacco subito», si ripromise. La vacanza l'aveva proprio tonificata, riflette', fisicamente e mentalmente. Vivere soli e' piacevole, ma talvolta un po' di compagnia si fa apprezzare. 
Chiodi, martello e quadretto in mano, Elsa si diresse quindi verso la stanza degli ospiti. «ma... Che succede? Dov'è la porta? Qui c'è solo un muro... Ma come? Ecco il quadro che sta sulla parete della stanza degli ospiti. Ecco la sedia accanto al letto. Ecco la cassettiera e lo specchio. Ma... La stanza, dov'è?». Elsa si guardo' intorno sconcertata. I mobili, a parte il letto, c'erano tutti. Quindi? Si era immaginata una stanza? Possibile che dieci giorni di vacanza l'avessero disorientata fino a quel punto? D'altra parte, non poteva non credere ai suoi occhi: la stanza non c'era. Il muro era liscio e decisamente compatto. Alzeimer? Confusione senile? Un brutto male al cervello? Elsa cominciò a spaventarsi. E non sapeva che fare. Si vergognava di parlarne con qualcuno, non aveva voglia di farsi dire che era pazza o rimbambita. «va bene, sono stanca del viaggio. Ora mi preparo una insalata e vado a dormire. Domani avrò le idee più chiare».
Tuttavia la mattina dopo il problema era sempre li. La stanza restava immaginaria, ma assolutamente reale nella sua testa. Elsa era convintissima di aver sempre avuto una stanza degli ospiti. I fatti,però, le dicevano che li’ non c'era nessuna stanza degli ospiti ma un bel muro solido. Insomma, solido quanto possono essere i muri di una casa costruita negli anni '60. Ma cavillare sulla qualità dell'architettura d'epoca non aiutava a risolvere la questione. 
Elsa cerco' di far finta di niente e riprese la sua vita normale. Giornale, spesa, quattro chiacchiere con i negozianti, la passeggiata al parco. Un po' di tv la sera, gli indispensabili libri, la soddisfazione delle sue piante. Solitaria era sempre stata. Niente figli, niente fratelli o sorelle. Alla morte del marito si era concentrata sul giorno per giorno. Ma in scioltezza. Senza recriminare. Adesso, però', la storia della stanza non la lasciava in pace. «Possibile? Possibile?», continuava a chiedersi. E così, dopo qualche settimana di tortura psicologica, Elsa decise di prendere il toro per le corna e andò al Centro anziani. Aspettò di incontrare Lucia, una volontaria  molto simpatica e di piglio. Lei avrebbe saputo chiarirle le idee. Magari consigliarle un medico...
«Lucia, sto diventando pazza. Temo», esordi'. 
«Elsa, ma che dici? Siamo state ad Alba poche settimane fa e se tu fossi pazza me ne sarei accorta, no? Siamo state sempre insieme!». 
«si', ma vedi, mi succede una cosa molto strana... In casa mia ho una stanza immaginaria... Insomma, tornata dalla vacanza, dove pensavo ci fosse una stanza, non c'è altro che un muro. Quella stanza, così reale per me, non esiste, eppure io sono sicura di averla sempre avuta. Ne ricordo l'arredamento, i dettagli, la finestra, il tappeto. Ma la stanza non c'è. C'è il mobile, c'è il quadro che era sulla parete in fondo, ma... Lucia, non ci sono molte spiegazioni possibili: sto male». 
Lucia era perplessa: storia inverosimile assai, in effetti. Ma Elsa la conosceva bene e pazza non era. Nemmeno svanita, in verità. Anzi, sempre sorridente e con la battuta pronta. «Elsa, non so che dirti. Vuoi che venga a dare un'occhiata? A me sembri perfettamente lucida e in te... Vogliamo andare dal medico? Magari il fatto di aver trascorso dieci giorni fuori dal tuo ambiente ti ha creato qualche scompenso, non so... Però ormai sono passate tre settimane, avresti dovuto esserci ripresa...».
«ecco, lo credo anche io. Per questo ho aspettato a parlarne. Mi vergogno anche un po'. È un tormento vero». Elsa era affranta.
Lucia la rassicurò. Poi si fece un bel giro nel quartiere. Nessuno, proprio nessuno aveva notato stranezze o tantomeno segni di squilibrio in Elsa. Magari un po' sovrappensiero ultimamente, meno sorridente, ma non più di quello. 
«Sempre piu strana, questa storia», si incuriosi Lucia. Andò a visitare Elsa per vedere, anzi non-vedere, con i suoi occhi la stanza fantasma. Tutto sembrava normalissimo. Elsa sembrava normale. Uscendo, sul pianerottolo incontrò i vicini della sua amica. Una coppia di giovani, parecchio trasandati a dirla tutta, con un neonato. «Sono Marco e Paola -li presentò Elsa- vivono qui da pochi mesi e hanno appena avuto Giorgio. Carino eh? Ogni tanto lo sento piangere al di la' del muro. Ma non da fastidio», si affretto' a rassicurare i due giovani che, in silenzio, si limitarono a scambiarsi una occhiata impaziente. A Lucia non piacquero affatto. Come non le piacque il fatto che prendessero loro l'ascensore senza nemmeno accennare a dare la precedenza a quella signora anziana. 
Lucia penso' parecchio al mistero di Elsa. E le venne una idea. Inconcepibile. Ma era una possibile spiegazione alla ’pazzia’ della sua ottantenne amica. 
Così, la mattina dopo, andò decisa a suonare il campanello della famiglia che abitava sotto ad Elsa. E chiese all'allibita proprietaria di vedere l'appartamento. “Mi scusi, sono amica della signora del piano di sopra. E, lei non ci crederà, ma le e' scomparsa una stanza... Mi è venuto un sospetto. Posso verificare?». La signora, benché attonita, accetto'. E, eccola li, la stanza mancante. Il piano di sotto ce l'aveva, eccome. Stessa scena al piano sopra quello di Elsa. Anche li', la stanza c'era. E la coppia che ci abitava aggiunse un dettaglio: «Elsa non c'era il mese scorso? Strano, abbiamo sentito il rumore dei lavori nel suo appartamento... Mah, forse allora erano i suoi vicini. Forse per il bambino hanno cambiato qualcosa....».
Per quanto incredibile, eccola la spiegazione. Lucia capi'. Marco e Paola avevano fatto ’la spesa’ immobiliare a casa di Elsa. Durante la  sua assenza, si erano appropriati di una stanza della sua casa. Contavano sulla senilità di Elsa. Sul fatto che, essendo sola al mondo, non avrebbe saputo cavarsela e avrebbe lasciato correre. 
Messi alle strette, i due confessarono. Con lieve imbarazzo, si giustificarono: «be' la signora è sola, che se ne faceva di tutto quello spazio? A noi una stanza in più con il bambini serviva proprio, ma soldi per pagarla non ne abbiamo. In fondo, siamo giovani, lei vecchia...». 
La conclusione la scrisse il tribunale. Elsa ritrovo' la sua stanza e con essa la pace mentale. Marco e Paola, processo a parte, furono costretti a cambiare quartiere per direttissima. 

lunedì 21 aprile 2014

Sono in tv!



Guido e il suo specchio riflettevano. In più, l'uomo snocciolava in fila gli ostacoli da superare in giornata. Alti, bassi, obliqui, inaspettati. Qualche sberleffo con il suo doppio, tanto per  mettere un po' di ginnastica facciale e di ironia alla giornata e via. 
La routine mattutina era sempre quella. Altrimenti che routine sarebbe stata? Barba, doccia, caffè con musica, il rituale meticoloso della vestizione, telefonata di buon giorno ai bambini, sempre sperando di non incocciare mammina, telefonata numero due a mamma', senza alcuna speranza di evitare consigli e raccomandazioni più o meno surreali. Con Federica, la sua nuova attrazione irresistibile non parlava mai di prima mattina. Meglio evitare certe intimità. Piuttosto, il pensiero si dirigeva più rapidamente del corpo verso la sua stanza nel palazzo ministeriale. Le scartoffie già prendevano vita. “Mmmm, ma questi sono straordinari”, si ribellava sempre Guido, cercando di non cadere in tentazione. E poi la passeggiata fino all'ufficio. Senza eccezioni meteorologiche, quei venti minuti erano imprescindibili. Il simulacro di una attività fisica quotidiana. 

Il cellulare di Sergio lo avverti' che erano le 8,40. Il suo stomaco lo sapeva già e si contorceva da un po', indeciso tra il bisogno di essere rifornito e la consapevolezza di non poter accettare intrusi. Grande giornata, oggi. LA giornata. Anzi, LA prova. Dopodiché ... Già, dopodiché ... Cosa? L'immaginazione di Sergio non riusciva ad andare oltre. Come se il mondo finisse su quelle colonne d'Ercole. Ne sarebbe uscito vincente. Solo questo contava. La strette di mano degli amici. Il filmato su Youtube. Magari ne avrebbero parlato in tv... Per questo bisognava essere precisi, nessuna esitazione, pochi gesti efficaci. Meglio ancora, una mossa unica. La consacrazione. Controllo’ ancora una volta l'abbigliamento. Jeans usati ma non troppo, maglietta a maniche corte con il logo del team di arti marziali. Peccato, il tatuaggio del dio del tuono, Thor, si vedeva poco. “Thor rappresenta teologicamente il dio (e l'uomo) che possiede, oppure è totalmente identificato, con l'"arma" divina, la ’virtù’”, si legge in wikipedia. Sergio si compiace assai di conoscere Wikipedia e Thor e ha imparato a memoria queste poche righe che talvolta ripete ai nuovi amici per far colpo o tra se' per non dimenticarle. “Insomma, l'ora e’ giunta, chiunque l'abbia detto”. Sergio raddrizza le spalle, scrolla la testa, accenna a un passo tra danza e boxe. Come in un telefilm. Un bacio ai pupi, gocciolanti muco e cereali in cucina, un altro a Silvietta, alle prese con la vita vera di madre, moglie, impiego. I venti minuti in bicicletta fino in centro, Sergio li percorre sperduto nei suoi pensieri: la squadra del cuore, un gioco per il computer appena uscito, quel nuovo istruttore di ’lotta di strada’, Felice, così bravo, ma così filosofico. “Tie', proprio Felice si doveva chiamare uno così”, sbotta tra se’. 

Lo aspettavano. Gli occhi di Sergio si focalizzano subito su di loro. Solo tre. Uno aveva la telecamerina. “Meno male”, sussulta l’ego. Gli altri, certo, avrebbero immortalato con i telefoni. “Magari a Silvietta non piacera’”. Ma la coscienza non venne a galla e affogo’. 
“Dammi il cinque”. I quattro Fonzies non avevano tanta dimestichezza con il linguaggio. Meglio recitare il copione dei tanti telefilm assorbiti. Molto più semplice che vivere di vita propria. Si avviano. L'incrocio non e’ così affollato. La prima ondata di lavoratori era già seduta al suo posto. 
“Il primo che sbuca da quell’angolo?”. “Il primo che sbuca da quel l'angolo”. “Donne?”. “No, donne, per ora, no”. “Ok”. 

Un minuto. Cuore finalmente in gola. Sangue nelle vene a mille. “Ci sono. Adesso. Guarda quella telecamera davanti alla banca. Con quella vado sui tiggi”. 
Guido spunto’ serafico. Mani in tasca. Testa verso i terrazzi fioriti di aprile. Non lo vide proprio Sergio, se non nei panni di un enorme pugno che si abbatteva sulla sua faccia. Stupore. Poi il crocchiare della testa sullo spigolo. “Mi sa che oggi non ci arrivo al lavoro”. 
Sergio volo’, il berretto calato ma non troppo. “Diamine, chi mi conosce deve rinoscermi. Ahahahh che faccia, quello. Che occhi vuoti quando e’ caduto.nemmeno ha provato a reagire. Gente così, uno sgrullone se lo merita. A prescindere”. Ma la citazione era inconsapevole.

Sul desk di Guido un grande mazzo di fiori e molti sussurri. Più che altro su chi prenderà il suo posto. Sergio scappa. Vola veloce. Scappa. Scappa stupito. Un solo pugno. L'iniziazione. Il precursore italiano del ’Knockout game’. In America va forte. E quello va a morire? Eddai. Preso. Riconosciuto da telecamere e conoscenti. “Non sono una star? Sto al tiggi. Non la volete una foto con me?”. 

domenica 20 aprile 2014

La quotidianità agghiaccia



Casa, interno sera, 22.30 

DRIIIINNNN
Lui: ciao, ho fatto tardi, scusa non mi sono accorto. Che c’è per cena?
Lei:  tagliatelle al ragù
Lui: arrivo
Poco dopo. Arriva
Lui: Ah… scusa,  ci sarebbero una decina di camicie da stirare, sai per non gravare su mia madre e la tua collaboratrice domestica fa poco o nulla
Lei (interdetta): va bene
Cenano. Si parla esclusivamente di lui. Finisce la cena
Lui: ok, grazie, ora me ne vado a casa
Lei: Non ti va di restare?
Lui: no, vado a casa
Lei: be’ allora vai adesso, subito
Lui: mi cacci di casa? Allora addio (sbatte la porta, per fortuna portando con sé le camicie)
Il giorno dopo lui via mail
”Addio e’ tutto finito. Riguardo quei soldi che mi hai prestato mandami il tuo Iban”
Lei (basita): prima lo manda mentalmente aff a a quel paese poi riflette.
Scrive.
E manda l’Iban.

mercoledì 16 aprile 2014

La rapina

Erano le 8.02 precise quando ho suonato all'ingresso della banca. Ancora in bocca lo sforzo di scambiare due chiacchiere cordiali con il custode del parcheggio. Carissima persona, per carità, ma ammetto di non eccellere in convenevoli sociali nelle brume mattutine di un febbraio torinese.
Mi apre Francesco, il junior incaricato di 'alzare e abbassare le serrande’ del ’negozio’. “Entra, entra, stai tranquilla, non ti preoccupare”, mi saluta. Lo guardo come fosse un marziano. ““Tranquilla? Non ti preoccupare”? Mancava solo l’hashtag #staiserena. Vabbe' che siamo in epoca renziana, ma insomma...”. Il tempo di fulminarlo con uno sguardo e vengo fulminata io dalla visione di due uomini mascherati. Altezza media, magrolino uno, l’altro poco più imponente. Vestiti di nero. Passamontagna. Uno indossa anche la pistola. Non vistosamente finta.
“Prego, signora, si accomodi”, mi fa quello armato. “Non abbia paura, dieci minuti e ce ne andiamo. Nel frattempo, mi darebbe la sua borsa?”. Eseguo. “Il suo cellulare?”, fa lui con accento siciliano. “Nella borsa”, replico in torinese. “Allora, signora, la borsa gliela metto qui, su questa scrivania. La può anche controllare. Non tocchiamo nulla”, fa il mingherlino. Poi, efficiente, mi ammanetta e mi fa sedere sul gradino della scala interna. Da li ho agio di vedere il buco nel muro che hanno fatto nella notte i rapinatori. “Li ho trovati dentro la banca stamattina, non sai che paura quando ho acceso le luci e mi sono visto questi due davanti”, mi sussurra Francesco, seduto temporaneamente accanto a me, ma non ammanettato.
Capisco subito perché quando suonano ancora alla porta e lui va ad  aprire. Entrano Carlo, il collega lavativo e il signor Brioschi, cliente mattiniero che viene a depositare l'incasso della sua pompa di benzina a trecento metri da qui.
Carlo parte con la scena. Ansima, trema, si agita. “Un bicchier d’acqua?” Chiede premuroso il rapinatore numero due. “Ha bisogno di prendere una pasticca, una medicina per lo spavento?”, si preoccupa ancora. Carlo prende la pillola che il malvivente cortese gli prende dal cappotto. Viene accompagnato sul gradino superiore al mio. Da li accenna sforzi di vomito. Io mi assesto sul gradino cercando di allontanarmi. Incontro lo sguardo del rapinatore e da sotto il passamontagna colgo un barlume di compassione nei miei confronti. “Povera donna, che devi passare con questi qua”, sembra volermi dire.
Sia il terrore del vomito imminente sulla mia giacca (Christina T. Non per dire...) sia la reale temperatura percepita, mi viene voglia di togliermi almeno la sciarpa. Ammanettata, però, e’ operazione assai complessa. “Mi aiuterebbe...?”, chiedo all’incappucciato. Lui, volenteroso, comincia a svolgere il mio collo dai numerosi giri. E, meraviglia, ripiega la sciarpa accuratamente e la posa sulla mia borsa. Applaudo mentalmente mamma, nonne e zie pedagoghe.
Nel frattempo, l'altro rapinatore e il povero Saverio, cassiere, fanno il loro lavoro di svuotare il caveau. Ma prima, il gentiluomo fa fare il versamento al benzinaio. “Lei non deve perdere nulla, faccia il suo versamento, così glielo rimborseranno”, esorta gentile. E rivolto al cassiere: “vuole prendere, che so, 500 euro per se'? Per il disturbo e lo spavento, Sa...”. Saverio rifiuta con garbo grato.
Dieci-quindici minuti e, come promesso, i due si dileguano. Non prima di averci chiusi in bagno, tutti ammanettati tranne Francesco. In modo che possa poi liberarci.
“Le chiavi delle manette le lasciamo vicino alla borsa della signora. Mi raccomando, non uscite prima di dieci minuti, siamo d'accordo” ripetono prima di sparire.
L'epilogo scontato racconta di volanti della polizia accalcate all'ingresso (troppo tardi...), interrogatori in cui ho sentito verità, diciamo, romanzate e conosciuto eroi-ombra, tanta tantissima paura retrospettiva. “E' la gang dei siciliani, vengono ’a chiamata’ -mi racconta il poliziotto che raccoglie la mia deposizione- sono palermitani o catanesi. Fanno il colpo e tornano nell’isola. Stanno molto attenti la benessere degli ostaggi. Sa, una cosa e' la rapina, una cosa sono le persone... Se qualcuno si fa male, le pene si aggravano. E parecchio”.
A cose fatte, racconto l’avventura a Giovanni, il mio compagno. “Ah, mio dio che storia terribile? Come stai, amore, adesso? Tutto bene? Ah, a proposito, ti ricordi di farmi quel bonifico? Come??? La banca oggi e’ chiusa???? Ma insomma, e io come faccio? Il bonifico deve essere fatto oggi....".
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lunedì 7 aprile 2014

Feeling

SMS dopo due chiacchiere a una cena 

- ho subito capito che tra noi c'era filling
- non credo proprio