sabato 26 aprile 2014

Perduti


Jason era preoccupato. La serata gli stava costando più del previsto. Le sterline nel portafogli erano praticamente finite. Ma il ritmo girava. Non aveva voglia di andare via. O limitare. No. Stasera 'no limits'. E dunque aveva bisogno di altri soldi. Quindi, di un bancomat. Allora, via, uscire, andare: bancomat, soldi, ancora divertimento. 
Rapido nelle decisioni, anche se non sempre avveduto, Jason uscì dal pub. Undici di sera. Città assai poco conosciuta. Mani in tasca, camminare. Nessuno in giro. «Ovviamente, quando ti serve, c'è il deserto... Ah, no ecco, un uomo... Mmmmh un homeless...»
«mi scusi», disse Jason
«Eh? Che c'è? Che vuoi?»
«Per caso, sa dov'è un bancomat nei dintorni?».
«Si, certo. L'accompagno», fa l'uomo, senza battere ciglio. Camminano. Jason un passo indietro.
Strade deserte, nelle notti inglesi. Fa freddo e appena oltre le luci e il calore emanato dai pub si fa freddo e scuro scuro. 
Tre svolte e sei nel nulla. Case buie e fredde. 
L'uomo si volta di scatto: «dammi tutti i tuoi soldi».
Jason trasecola. E' interdetto più che spaventato. «Ma se ti ho chiesto un bancomat, e' ovvio che soldi non ne ho, ti pare?». 
«Be' allora andiamo al bancomat», concede l'uomo. 
Pochi metri. Luce e di colpo via vai, persone in giro. Non ci vorrebbe molto per Jason liberarsi dell'incomodo. Bastebbe accostare qualcuno o gridare. Ma no. I due si avvicinano allo sportello automatico. 
«Stai lontano che poi ti riconoscono», avverte Jason. Preleva. E versa due terzi nelle mani dell'uomo incredulo. «Troppo tonto. Gli chiedo un bancomat e lui cerca di rapinarmi 'prima' che io abbia i soldi?», spiega poi agli amici. «Macome potevo lasciarlo in balia di se stesso?». Preferì ignorare il sussurro di chi si chiedeva quanto tonto sia uno che chiede dove sia un bancomat a un homeless... 
  

mercoledì 23 aprile 2014

La stanza degli altri





Elsa era proprio contenta. Dopo dieci giorni di vacanza ad Alba adriatica, tornare a casa faceva bene. Infilo' le chiavi nella serratura, fece un passo avanti e ecco la penombra dell'ingresso. Meno male, la sanseveria non ha sofferto. Un po' floscio invece lo spatifillium, ma niente che non si possa risolvere con un po' d'acqua. 
Elsa porto' la valigia in camera da letto e cominciò a disfarla. Gli abiti sporchi per la lavatrice, qualcosa da portare in tintoria, il maglione di cachemire grigio comprato in fabbrica nel cassetto in attesa dell'inverno, i maccheroncini di Campofilone, specialità locale, in cucina. E il piccolo acquerello acquattato nella polvere di una bottega di Tortoreto nella stanza degli ospiti. Ci aveva pensato a lungo, Elsa, prima di comprarlo. Non che costasse una fortuna, ma comunque, aveva senso, alla sua età accumulare cose? Non sarebbe il tempo di lasciarsi indietro gli oggetti, si era chiesta. Non è più il momento di progetti, aveva ragionato. Ma invece, evidentemente, non era così. Quella marina, forse banale, ce l'aveva avuta negli occhi per giorni. Aveva rovistato nell'immaginario del suo appartamento per collocarla qui o li. E alla fine aveva deciso che era perfetta per la stanza degli ospiti, accanto allo specchio con la cornice di noce. L'avrebbe rischiarata un po'. 
«bene, mi faccio un caffè e l'attacco subito», si ripromise. La vacanza l'aveva proprio tonificata, riflette', fisicamente e mentalmente. Vivere soli e' piacevole, ma talvolta un po' di compagnia si fa apprezzare. 
Chiodi, martello e quadretto in mano, Elsa si diresse quindi verso la stanza degli ospiti. «ma... Che succede? Dov'è la porta? Qui c'è solo un muro... Ma come? Ecco il quadro che sta sulla parete della stanza degli ospiti. Ecco la sedia accanto al letto. Ecco la cassettiera e lo specchio. Ma... La stanza, dov'è?». Elsa si guardo' intorno sconcertata. I mobili, a parte il letto, c'erano tutti. Quindi? Si era immaginata una stanza? Possibile che dieci giorni di vacanza l'avessero disorientata fino a quel punto? D'altra parte, non poteva non credere ai suoi occhi: la stanza non c'era. Il muro era liscio e decisamente compatto. Alzeimer? Confusione senile? Un brutto male al cervello? Elsa cominciò a spaventarsi. E non sapeva che fare. Si vergognava di parlarne con qualcuno, non aveva voglia di farsi dire che era pazza o rimbambita. «va bene, sono stanca del viaggio. Ora mi preparo una insalata e vado a dormire. Domani avrò le idee più chiare».
Tuttavia la mattina dopo il problema era sempre li. La stanza restava immaginaria, ma assolutamente reale nella sua testa. Elsa era convintissima di aver sempre avuto una stanza degli ospiti. I fatti,però, le dicevano che li’ non c'era nessuna stanza degli ospiti ma un bel muro solido. Insomma, solido quanto possono essere i muri di una casa costruita negli anni '60. Ma cavillare sulla qualità dell'architettura d'epoca non aiutava a risolvere la questione. 
Elsa cerco' di far finta di niente e riprese la sua vita normale. Giornale, spesa, quattro chiacchiere con i negozianti, la passeggiata al parco. Un po' di tv la sera, gli indispensabili libri, la soddisfazione delle sue piante. Solitaria era sempre stata. Niente figli, niente fratelli o sorelle. Alla morte del marito si era concentrata sul giorno per giorno. Ma in scioltezza. Senza recriminare. Adesso, però', la storia della stanza non la lasciava in pace. «Possibile? Possibile?», continuava a chiedersi. E così, dopo qualche settimana di tortura psicologica, Elsa decise di prendere il toro per le corna e andò al Centro anziani. Aspettò di incontrare Lucia, una volontaria  molto simpatica e di piglio. Lei avrebbe saputo chiarirle le idee. Magari consigliarle un medico...
«Lucia, sto diventando pazza. Temo», esordi'. 
«Elsa, ma che dici? Siamo state ad Alba poche settimane fa e se tu fossi pazza me ne sarei accorta, no? Siamo state sempre insieme!». 
«si', ma vedi, mi succede una cosa molto strana... In casa mia ho una stanza immaginaria... Insomma, tornata dalla vacanza, dove pensavo ci fosse una stanza, non c'è altro che un muro. Quella stanza, così reale per me, non esiste, eppure io sono sicura di averla sempre avuta. Ne ricordo l'arredamento, i dettagli, la finestra, il tappeto. Ma la stanza non c'è. C'è il mobile, c'è il quadro che era sulla parete in fondo, ma... Lucia, non ci sono molte spiegazioni possibili: sto male». 
Lucia era perplessa: storia inverosimile assai, in effetti. Ma Elsa la conosceva bene e pazza non era. Nemmeno svanita, in verità. Anzi, sempre sorridente e con la battuta pronta. «Elsa, non so che dirti. Vuoi che venga a dare un'occhiata? A me sembri perfettamente lucida e in te... Vogliamo andare dal medico? Magari il fatto di aver trascorso dieci giorni fuori dal tuo ambiente ti ha creato qualche scompenso, non so... Però ormai sono passate tre settimane, avresti dovuto esserci ripresa...».
«ecco, lo credo anche io. Per questo ho aspettato a parlarne. Mi vergogno anche un po'. È un tormento vero». Elsa era affranta.
Lucia la rassicurò. Poi si fece un bel giro nel quartiere. Nessuno, proprio nessuno aveva notato stranezze o tantomeno segni di squilibrio in Elsa. Magari un po' sovrappensiero ultimamente, meno sorridente, ma non più di quello. 
«Sempre piu strana, questa storia», si incuriosi Lucia. Andò a visitare Elsa per vedere, anzi non-vedere, con i suoi occhi la stanza fantasma. Tutto sembrava normalissimo. Elsa sembrava normale. Uscendo, sul pianerottolo incontrò i vicini della sua amica. Una coppia di giovani, parecchio trasandati a dirla tutta, con un neonato. «Sono Marco e Paola -li presentò Elsa- vivono qui da pochi mesi e hanno appena avuto Giorgio. Carino eh? Ogni tanto lo sento piangere al di la' del muro. Ma non da fastidio», si affretto' a rassicurare i due giovani che, in silenzio, si limitarono a scambiarsi una occhiata impaziente. A Lucia non piacquero affatto. Come non le piacque il fatto che prendessero loro l'ascensore senza nemmeno accennare a dare la precedenza a quella signora anziana. 
Lucia penso' parecchio al mistero di Elsa. E le venne una idea. Inconcepibile. Ma era una possibile spiegazione alla ’pazzia’ della sua ottantenne amica. 
Così, la mattina dopo, andò decisa a suonare il campanello della famiglia che abitava sotto ad Elsa. E chiese all'allibita proprietaria di vedere l'appartamento. “Mi scusi, sono amica della signora del piano di sopra. E, lei non ci crederà, ma le e' scomparsa una stanza... Mi è venuto un sospetto. Posso verificare?». La signora, benché attonita, accetto'. E, eccola li, la stanza mancante. Il piano di sotto ce l'aveva, eccome. Stessa scena al piano sopra quello di Elsa. Anche li', la stanza c'era. E la coppia che ci abitava aggiunse un dettaglio: «Elsa non c'era il mese scorso? Strano, abbiamo sentito il rumore dei lavori nel suo appartamento... Mah, forse allora erano i suoi vicini. Forse per il bambino hanno cambiato qualcosa....».
Per quanto incredibile, eccola la spiegazione. Lucia capi'. Marco e Paola avevano fatto ’la spesa’ immobiliare a casa di Elsa. Durante la  sua assenza, si erano appropriati di una stanza della sua casa. Contavano sulla senilità di Elsa. Sul fatto che, essendo sola al mondo, non avrebbe saputo cavarsela e avrebbe lasciato correre. 
Messi alle strette, i due confessarono. Con lieve imbarazzo, si giustificarono: «be' la signora è sola, che se ne faceva di tutto quello spazio? A noi una stanza in più con il bambini serviva proprio, ma soldi per pagarla non ne abbiamo. In fondo, siamo giovani, lei vecchia...». 
La conclusione la scrisse il tribunale. Elsa ritrovo' la sua stanza e con essa la pace mentale. Marco e Paola, processo a parte, furono costretti a cambiare quartiere per direttissima. 

lunedì 21 aprile 2014

Sono in tv!



Guido e il suo specchio riflettevano. In più, l'uomo snocciolava in fila gli ostacoli da superare in giornata. Alti, bassi, obliqui, inaspettati. Qualche sberleffo con il suo doppio, tanto per  mettere un po' di ginnastica facciale e di ironia alla giornata e via. 
La routine mattutina era sempre quella. Altrimenti che routine sarebbe stata? Barba, doccia, caffè con musica, il rituale meticoloso della vestizione, telefonata di buon giorno ai bambini, sempre sperando di non incocciare mammina, telefonata numero due a mamma', senza alcuna speranza di evitare consigli e raccomandazioni più o meno surreali. Con Federica, la sua nuova attrazione irresistibile non parlava mai di prima mattina. Meglio evitare certe intimità. Piuttosto, il pensiero si dirigeva più rapidamente del corpo verso la sua stanza nel palazzo ministeriale. Le scartoffie già prendevano vita. “Mmmm, ma questi sono straordinari”, si ribellava sempre Guido, cercando di non cadere in tentazione. E poi la passeggiata fino all'ufficio. Senza eccezioni meteorologiche, quei venti minuti erano imprescindibili. Il simulacro di una attività fisica quotidiana. 

Il cellulare di Sergio lo avverti' che erano le 8,40. Il suo stomaco lo sapeva già e si contorceva da un po', indeciso tra il bisogno di essere rifornito e la consapevolezza di non poter accettare intrusi. Grande giornata, oggi. LA giornata. Anzi, LA prova. Dopodiché ... Già, dopodiché ... Cosa? L'immaginazione di Sergio non riusciva ad andare oltre. Come se il mondo finisse su quelle colonne d'Ercole. Ne sarebbe uscito vincente. Solo questo contava. La strette di mano degli amici. Il filmato su Youtube. Magari ne avrebbero parlato in tv... Per questo bisognava essere precisi, nessuna esitazione, pochi gesti efficaci. Meglio ancora, una mossa unica. La consacrazione. Controllo’ ancora una volta l'abbigliamento. Jeans usati ma non troppo, maglietta a maniche corte con il logo del team di arti marziali. Peccato, il tatuaggio del dio del tuono, Thor, si vedeva poco. “Thor rappresenta teologicamente il dio (e l'uomo) che possiede, oppure è totalmente identificato, con l'"arma" divina, la ’virtù’”, si legge in wikipedia. Sergio si compiace assai di conoscere Wikipedia e Thor e ha imparato a memoria queste poche righe che talvolta ripete ai nuovi amici per far colpo o tra se' per non dimenticarle. “Insomma, l'ora e’ giunta, chiunque l'abbia detto”. Sergio raddrizza le spalle, scrolla la testa, accenna a un passo tra danza e boxe. Come in un telefilm. Un bacio ai pupi, gocciolanti muco e cereali in cucina, un altro a Silvietta, alle prese con la vita vera di madre, moglie, impiego. I venti minuti in bicicletta fino in centro, Sergio li percorre sperduto nei suoi pensieri: la squadra del cuore, un gioco per il computer appena uscito, quel nuovo istruttore di ’lotta di strada’, Felice, così bravo, ma così filosofico. “Tie', proprio Felice si doveva chiamare uno così”, sbotta tra se’. 

Lo aspettavano. Gli occhi di Sergio si focalizzano subito su di loro. Solo tre. Uno aveva la telecamerina. “Meno male”, sussulta l’ego. Gli altri, certo, avrebbero immortalato con i telefoni. “Magari a Silvietta non piacera’”. Ma la coscienza non venne a galla e affogo’. 
“Dammi il cinque”. I quattro Fonzies non avevano tanta dimestichezza con il linguaggio. Meglio recitare il copione dei tanti telefilm assorbiti. Molto più semplice che vivere di vita propria. Si avviano. L'incrocio non e’ così affollato. La prima ondata di lavoratori era già seduta al suo posto. 
“Il primo che sbuca da quell’angolo?”. “Il primo che sbuca da quel l'angolo”. “Donne?”. “No, donne, per ora, no”. “Ok”. 

Un minuto. Cuore finalmente in gola. Sangue nelle vene a mille. “Ci sono. Adesso. Guarda quella telecamera davanti alla banca. Con quella vado sui tiggi”. 
Guido spunto’ serafico. Mani in tasca. Testa verso i terrazzi fioriti di aprile. Non lo vide proprio Sergio, se non nei panni di un enorme pugno che si abbatteva sulla sua faccia. Stupore. Poi il crocchiare della testa sullo spigolo. “Mi sa che oggi non ci arrivo al lavoro”. 
Sergio volo’, il berretto calato ma non troppo. “Diamine, chi mi conosce deve rinoscermi. Ahahahh che faccia, quello. Che occhi vuoti quando e’ caduto.nemmeno ha provato a reagire. Gente così, uno sgrullone se lo merita. A prescindere”. Ma la citazione era inconsapevole.

Sul desk di Guido un grande mazzo di fiori e molti sussurri. Più che altro su chi prenderà il suo posto. Sergio scappa. Vola veloce. Scappa. Scappa stupito. Un solo pugno. L'iniziazione. Il precursore italiano del ’Knockout game’. In America va forte. E quello va a morire? Eddai. Preso. Riconosciuto da telecamere e conoscenti. “Non sono una star? Sto al tiggi. Non la volete una foto con me?”. 

domenica 20 aprile 2014

La quotidianità agghiaccia



Casa, interno sera, 22.30 

DRIIIINNNN
Lui: ciao, ho fatto tardi, scusa non mi sono accorto. Che c’è per cena?
Lei:  tagliatelle al ragù
Lui: arrivo
Poco dopo. Arriva
Lui: Ah… scusa,  ci sarebbero una decina di camicie da stirare, sai per non gravare su mia madre e la tua collaboratrice domestica fa poco o nulla
Lei (interdetta): va bene
Cenano. Si parla esclusivamente di lui. Finisce la cena
Lui: ok, grazie, ora me ne vado a casa
Lei: Non ti va di restare?
Lui: no, vado a casa
Lei: be’ allora vai adesso, subito
Lui: mi cacci di casa? Allora addio (sbatte la porta, per fortuna portando con sé le camicie)
Il giorno dopo lui via mail
”Addio e’ tutto finito. Riguardo quei soldi che mi hai prestato mandami il tuo Iban”
Lei (basita): prima lo manda mentalmente aff a a quel paese poi riflette.
Scrive.
E manda l’Iban.

mercoledì 16 aprile 2014

La rapina

Erano le 8.02 precise quando ho suonato all'ingresso della banca. Ancora in bocca lo sforzo di scambiare due chiacchiere cordiali con il custode del parcheggio. Carissima persona, per carità, ma ammetto di non eccellere in convenevoli sociali nelle brume mattutine di un febbraio torinese.
Mi apre Francesco, il junior incaricato di 'alzare e abbassare le serrande’ del ’negozio’. “Entra, entra, stai tranquilla, non ti preoccupare”, mi saluta. Lo guardo come fosse un marziano. ““Tranquilla? Non ti preoccupare”? Mancava solo l’hashtag #staiserena. Vabbe' che siamo in epoca renziana, ma insomma...”. Il tempo di fulminarlo con uno sguardo e vengo fulminata io dalla visione di due uomini mascherati. Altezza media, magrolino uno, l’altro poco più imponente. Vestiti di nero. Passamontagna. Uno indossa anche la pistola. Non vistosamente finta.
“Prego, signora, si accomodi”, mi fa quello armato. “Non abbia paura, dieci minuti e ce ne andiamo. Nel frattempo, mi darebbe la sua borsa?”. Eseguo. “Il suo cellulare?”, fa lui con accento siciliano. “Nella borsa”, replico in torinese. “Allora, signora, la borsa gliela metto qui, su questa scrivania. La può anche controllare. Non tocchiamo nulla”, fa il mingherlino. Poi, efficiente, mi ammanetta e mi fa sedere sul gradino della scala interna. Da li ho agio di vedere il buco nel muro che hanno fatto nella notte i rapinatori. “Li ho trovati dentro la banca stamattina, non sai che paura quando ho acceso le luci e mi sono visto questi due davanti”, mi sussurra Francesco, seduto temporaneamente accanto a me, ma non ammanettato.
Capisco subito perché quando suonano ancora alla porta e lui va ad  aprire. Entrano Carlo, il collega lavativo e il signor Brioschi, cliente mattiniero che viene a depositare l'incasso della sua pompa di benzina a trecento metri da qui.
Carlo parte con la scena. Ansima, trema, si agita. “Un bicchier d’acqua?” Chiede premuroso il rapinatore numero due. “Ha bisogno di prendere una pasticca, una medicina per lo spavento?”, si preoccupa ancora. Carlo prende la pillola che il malvivente cortese gli prende dal cappotto. Viene accompagnato sul gradino superiore al mio. Da li accenna sforzi di vomito. Io mi assesto sul gradino cercando di allontanarmi. Incontro lo sguardo del rapinatore e da sotto il passamontagna colgo un barlume di compassione nei miei confronti. “Povera donna, che devi passare con questi qua”, sembra volermi dire.
Sia il terrore del vomito imminente sulla mia giacca (Christina T. Non per dire...) sia la reale temperatura percepita, mi viene voglia di togliermi almeno la sciarpa. Ammanettata, però, e’ operazione assai complessa. “Mi aiuterebbe...?”, chiedo all’incappucciato. Lui, volenteroso, comincia a svolgere il mio collo dai numerosi giri. E, meraviglia, ripiega la sciarpa accuratamente e la posa sulla mia borsa. Applaudo mentalmente mamma, nonne e zie pedagoghe.
Nel frattempo, l'altro rapinatore e il povero Saverio, cassiere, fanno il loro lavoro di svuotare il caveau. Ma prima, il gentiluomo fa fare il versamento al benzinaio. “Lei non deve perdere nulla, faccia il suo versamento, così glielo rimborseranno”, esorta gentile. E rivolto al cassiere: “vuole prendere, che so, 500 euro per se'? Per il disturbo e lo spavento, Sa...”. Saverio rifiuta con garbo grato.
Dieci-quindici minuti e, come promesso, i due si dileguano. Non prima di averci chiusi in bagno, tutti ammanettati tranne Francesco. In modo che possa poi liberarci.
“Le chiavi delle manette le lasciamo vicino alla borsa della signora. Mi raccomando, non uscite prima di dieci minuti, siamo d'accordo” ripetono prima di sparire.
L'epilogo scontato racconta di volanti della polizia accalcate all'ingresso (troppo tardi...), interrogatori in cui ho sentito verità, diciamo, romanzate e conosciuto eroi-ombra, tanta tantissima paura retrospettiva. “E' la gang dei siciliani, vengono ’a chiamata’ -mi racconta il poliziotto che raccoglie la mia deposizione- sono palermitani o catanesi. Fanno il colpo e tornano nell’isola. Stanno molto attenti la benessere degli ostaggi. Sa, una cosa e' la rapina, una cosa sono le persone... Se qualcuno si fa male, le pene si aggravano. E parecchio”.
A cose fatte, racconto l’avventura a Giovanni, il mio compagno. “Ah, mio dio che storia terribile? Come stai, amore, adesso? Tutto bene? Ah, a proposito, ti ricordi di farmi quel bonifico? Come??? La banca oggi e’ chiusa???? Ma insomma, e io come faccio? Il bonifico deve essere fatto oggi....".
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lunedì 7 aprile 2014

Feeling

SMS dopo due chiacchiere a una cena 

- ho subito capito che tra noi c'era filling
- non credo proprio